«FUGGIRE?  PERCHÉ  FUGGIRE?
PER  ME  FUGGIRE  È  COME  DISERTARE! »

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30 marzo! Oggi, Camillo, avremmo festeggiato i nostri 21 anni di ordinazione sacerdotale: una scelta vissuta con te in trepidazione.

Ci eravamo conosciuti nel seminario serafico di Giovinazzo quando io con i miei compagni vi eravamo stati trasferiti da quello di Barletta, nel 1957. Tu vi eri andato un anno prima di me. All’inizio non simpatizzammo, non eravamo amici. Ti accettavo, come tutti del resto, come un compagnone. Sempre pronto ad unirti a tutti e ad arricchire con la tua disponibilità ogni iniziativa.

Tifoso della Juve, fino a fornirti di giornali per saperne di più. Giocatore di calcio, centravanti, poco mobile a causa della tua stazza, ma approfittatore rapace, capace di mettere in gol ogni pallone che ti capitava tra i piedi. Chi aveva te come centravanti era quasi sicuro di vincere.

Ci avvicinammo e ci conoscemmo piano piano durante i due anni passati a Giovinazzo. Ci conoscemmo davvero quando, finito il quinto ginnasio, dovemmo prendere la decisione di andare al noviziato. La prima decisione importante, delle tante che la vita insieme ci avrebbe riservato. Fu allora che ci confrontammo davvero per decidere, insieme con gli altri otto compagni di viaggio, di partire per il noviziato.   

1959: da Giovinazzo si parte per il noviziato

Lungo il cammino dello studentato durato otto anni, il nostro rapporto si approfondì nell’attenzione reciproca nei momenti di crisi e di dubbi, di gioia e di speranza quando fummo chiamati dal Signore a promettere di vivere per tutta la vita da cappuccini, in obbedienza, senza proprio e in castità.

Nel frattempo molti dei nostri compagni fecero altre scelte ma tu, fra Corrado Mappa ed io fummo graziati dal Signore che ci donò la voglia di accedere al sacerdozio e di conformare la nostra vita a quella del suo figlio Gesù.

Fra Camillo e compagni: novizi

Da studenti di teologia avemmo più fortuna in relazione ai nostri compagni. E tu, di più in relazione a me. Tu infatti  avesti la fortuna di partecipare a Milano in un convegno missionario nazionale insieme ad altri studenti.

Meditazione e riposo

Ma forse l’esperienza che più segnò la nostra vita fu l’incarico che fra Lorenzo Invidia  ti affidò di auto parroco nel quartiere di Torre Tresca, un rione malfamato, povero e umiliato a vivere in un ambiente squallido. A me invece fu affidato il compito di assistere i catechisti durante l’ora di catechesi. Ogni domenica, al ritorno a casa, ci confrontavamo su quanto avevamo vissuto.  

Due anni dopo l’ordinazione decidemmo di andare in Mozambico. Ricordo che un giorno venni a trovarti nella casa dei frati del policlinico di Bari, dove tu eri il più “popolare” dei cappellani. Quel giorno il superiore P. Giovanni da Palo, mi rimproverò severamente per aver salutato all’entrata con un sonoro “buongiorno” invece del francescano “pace e bene”.

1968: Fra Leone Innamorato parte per il Mozambico

Io abbassai la testa e mi ritirai nella tua stanza per parlare con te del nostro progetto di andare in missione. Parlammo tanto, del più e del meno, ci chiedevamo se veramente era per noi una vocazione o una fantasia giovanile che ci spingeva a vivere solo una avventura tropicale, oppure se desideravamo semplicemente allontanarci dal nostro ambiente italiano, che giudicavamo troppo piatto, anche se tu ti eri inserito molto bene nel tuo apostolato di cappellano ospedaliero.

Bari-Policlinico: mandato missionario

Rimanemmo in silenzio, in preghiera. Non era una scelta facile. Il coraggio dei quattro nostri compagni, i frati  Fortunato, Bruno, Zaccaria e Fedele, partiti in missione l’anno prima, esercitava in noi una forte attrazione e accendeva la fantasia.

Lo vedevo quanto bene ti volevano medici, infermieri, personale ausiliare e suore e come ti muovevi a volontà tra di loro e, se c’era da ascoltare un malato, lasciavi improvvisamente tutti per metterti a servizio di quel povero cristo ammalato, bisognoso di una tua parola di conforto o di una confessione o di una raccomandazione per un medico perché gli desse più attenzione. E tu allora prendevi sotto braccio il medico amico e lo portavi al suo capezzale.

Anche io mi trovavo molto bene ad Alessano. Un grande gruppo di ragazzi si era avvicinato al convento insieme alle loro famiglie. C’era un bel movimento. Quanti progetti erano stati realizzati ad Alessano. Una volta ti invitai a dare le tua testimonianza. I ragazzi rimasero contenti di conoscerti e rimasero favorevolmente impressionati per la nostra amicizia e il rapporto cordiale che ci legava.

Consegna del Crocifisso

Eppure non eravamo soddisfatti. Ci mancava qualcosa. Avevamo bisogno di qualcosa di più forte. Poi mi dicesti che anche fra Benito De Caro aveva deciso di partire con noi. Stringemmo un patto: al più presto si parte in tre per il Mozambico!

E fu così che il 18 di novembre del 1970 ci imbarcammo da Napoli per Lisbona, mentre dal mangiadischi dei tanti nostri familiari e amici che erano venuti a salutarci, uscivano le note e le parole della canzone di Al Bano: … «ed una mano bianca la nera stringerà!»

Maria Helena Teixeira Martins, la nostra “professora”

I nove mesi che passammo in Portogallo furono un tempo bellissimo. L’ebbrezza di conoscere un nuovo popolo, una nuova lingua, una nuova cultura ci dava voglia di girare, visitare, imparare.
Entrammo nel cuore del mondo portoghese accompagnati da Maria Helena Teixeira Martins, la nostra “professora” di lingua portoghese. Una donna nobile di cuore che ci introdusse nella ricchezza e grandezza della cultura portoghese.

18.11.1970: Napoli partenza per Lisbona

Poi tu e fra Benito decideste di andarvene al nord del Portogallo, a Porto e Barcelos, per separarci, restare da soli e costringerci a parlare il portoghese. Voi vi integraste alla grande nelle fraternità di quei conventi. Io rimasi a Lisbona.

Vi misi in fibrillazione quando vi dissi che ero entrato a lavorare in una fabbrica di vetro. La cosa durò solo un mese perché, essendo straniero, non potevo essere assunto in una fabbrica nazionale.

Fra Camillo col fratello Fra Cristoforo Campanella

Tra conti e sconti l’impresa mi consegnò 450 scudi portoghesi, il capo del personale mi disse il suo “obrigado” e la porta della fabbrica si chiuse alle mie spalle. Vi rassicuraste quando sapeste che la mia avventura lavorativa era finita e che mi ero inserito nella parrocchia del Lumiar come collaboratore del parroco.

Mons Januario Machaze Nhangumbe visita la famiglia Campanella

Durante quei nove mesi non mancò un colpo geniale di fantasia quando decidemmo di fare un giro in Europa. Vagabondammo per 20 giorni in giro per varie nazioni: la vacanza più fantastica e spensierata della vita!

Fui riportato alla realtà da schiamazzi, grida, rumori, un vero baccano di gente che si avvicinava rapidamente al nostro gruppo.
Riprendo a trascrivere gli appunti della mia agenda.

Tempo dello spirito

«Mentre attendevamo l’arrivo da Quelimane della bara portata da fra Fortunato Simone, che veniva insieme all’amico dottor Matteo Rebonato che si era offerto di aiutarci per la rimozione e l’autopsia della salma, intravedemmo tra gli alberi un grosso contingente di militari che procedeva disordinatamente in gran baccano. Questa volta ci prendemmo paura. Immaginavamo che fossero i guerriglieri.

Benedizione della Memoria dei Martiri

Chiesi a tutti di nascondersi nella boscaglia.
Rimasi solo con fra Guido, aspettando che arrivasse quel gruppo di masnadieri.  Appena ci videro, ci accerchiarono e ci puntarono addosso le armi. Ma alcuni di loro videro il tumulo del povero fra Oreste, mentre spiegavamo che stavamo lì per ricuperarne la salma, che eravamo in attesa  che arrivasse da Quelimane la bara e che non eravamo soli, gli altri che erano venuti con noi si erano dispersi nel vicino villaggio a comprare dei cocchi. (Non era questa la verità!)

Quando capimmo, dalle reazioni e commenti che facevano sulla morte del frate, che si trattava di un battaglione di militari regolari, ci rasserenammo. Offrimmo loro i cocchi che avevamo raccolto e finalmente ci lasciarono soli.
Intanto fra Fortunato e il dottor Matteo ci comunicarono che avevano trasbordato la bara sulla jeep della Croce Rossa Internazione, anche questa mobilitata in nostro soccorso, e che erano ormai vicini.

Quando arrivarono, procedemmo alla riesumazione completa della salma. Il dottor Matteo, come potette e in condizioni estremamente precarie, fece una rapida autopsia insieme al delegato della Croce Rossa il dottor Cristian Brugnion.

Il povero e martoriato corpo di fra Oreste era in avanzato stato di decomposizione con odore terribile, essendo deceduto da circa 72 ore. Aveva il torso nudo e un paio di pantaloni. Un braccio era fasciato con bende; una larga ferita sotto l’ascella destra con frattura delle costole. Un colpo di arma bianca aveva aperto il torace e forse anche lesionato l’arteria e la vena ascellare. C’era pure una ferita nella schiena ma non aveva perforato la pleura.

Non aveva macchie di sangue addosso e neppure sulle bende. Fra Giocondo nella sua pietà aveva lavato il corpo e curato la sepoltura. Quanta sofferenza! La lunga agonia di Fra Oreste strattonato dal lungo viaggio sul cassone della jeep su una strada dissestata… Tu, Signore buono, lo hai accolto tra le tue braccia e alla tua presenza!

E fra Giocondo? Che tragica giornata! Tre fratelli-compagni uccisi sotto i suoi occhi! Lui, l’unico sopravvissuto! Una missione, quella che lui aveva fondato quasi 40 anni prima, saccheggiata, violata, distrutta!
Eppure tu, Signore, vedevi tutte queste cose, e tacevi e non fermavi mani violente  contro uomini di pace che a te avevano affidato la loro vita!

Non resistevo al cattivo odore. Matteo mi mise sotto il naso un grosso batuffolo di cotone idrofilo inzuppato di alcol dicendomi di respirare forte. Mi avvicinai e vidi da vicino tutta l’operazione, pregando mentre scattavo qualche foto.
Poi mettemmo la salma in due sacchi di plastica che Matteo aveva portato dell’ospedale. Fra Fortunato chiuse la cassa, la caricammo sulla jeep della Croce Rossa e velocemente ritornammo a Quelimane».

Veloci. Per paura. Per l’insicurezza. Ma anche per lasciare inchiodati su quel fazzoletto di terra con la croce, che avevamo piantata sul tumulo di fra Oreste, immagini, angosce, dolore, odori, suoni e tutto ciò che avevamo vissuto quel giorno, il 30 marzo: 21° anniversario della nostra ordinazione sacerdotale!

Io mi sentii liberare da tutto quell’orrore quando, arrivati sul molo, la bara di fra Oreste fu coperta di fiori e di pianto di tanta gente che lo aspettava.

Poi la sistemazione del catafalco nella chiesa di Colane per la veglia di tutta la notte. L’indomani mattina il funerale.
Poi il silenzio del cuore.

«Anche noi abbiamo eroi! Non certo eroi del mare, ma della foresta...»
Il 14 maggio partii per Roma con fra Giocondo. Non mi sembrò opportuno lasciarlo da solo durante il viaggio e al primo impatto al suo arrivo in Italia, dopo i fatti così tragici che gli era capitato di vivere in Mozambico. Il 15 maggio il Papa Giovanni Paolo II ci ricevette in udienza privata e volle sapere per filo e per segno la successione dei fatti, dal vostro martirio alla sua liberazione.
 

… ci voleva un segno fisico che raccontasse al futuro…

Quando tornai dall’Italia in Mozambico, sentivo forte dentro di me che la memoria del vostro martirio non doveva essere sbiadita dall’inesorabile passare del tempo, doveva diventare un fatto pubblico, qualcosa da ricordare.

Ci voleva un segno fisico, qualcosa di visibile che raccontasse a tutti, anche nel futuro e per sempre il vostro impegno per l’uomo, per il Mozambico, per l’Africa e per Cristo Signore.
Non so come e perché mi avventurai in un progetto che andava troppo oltre le mie capacità e possibilità.

Pensai di costruire, sul punto esatto dove la vostra vita era stata immolata e il vostro sangue benedetto versato, una grande Africa mettendo in evidenza la mappa del Mozambico e segnalando la località di Inhassunge. Su questa grande Africa avrei piantato tre croci di pau-ferro (un legno durissimo di un albero che cresce lungo i fiumi di acqua salata di Inhassunge). Su ognuna delle croci, sull’asse lungo avrei scritto il vostro nome, sull’asse trasversale le parole “Cristo-Uomo”.

Gli animatori e i cristiani di Inhassunge (falegnami, muratori e carpentieri) con gioia si misero al lavoro. Il dirigente della Madal, Rogério Henriques, mise a disposizione i tronchi di palma per definire i golfi e i frastagliati confini dell’Africa. Il problema era però dove  procurare cemento e ferro, cose inesistenti in tutto il Mozambico. Ma i volontari di un progetto italiano mi offrirono 15 sacchi di cemento, ma non avevano ferro ... lo ricuperammo tra i ruderi di case bombardate nei vari attacchi della Re.na.mo e la rete del gallinaio fece il resto!

Cardinale di Maputo mons Alexandre Maria dos Santos e Mons. Bernardo Filipe Governo

Il 15 agosto alla presenza dell’arcivescovo di Maputo il cardinale Alexandre Maria dos Santos, del vescovo di Quelimane Dom Bernardo Filipe Governo, una grande presenza di missionari e suore e tanto, ma tanto popolo, abbiamo benedetto la “Memória dos mártires”.

I tuoi fratelli Filomena e Giacomino, venuti dall’Italia per l’occasione, aprivano la processione delle croci portando, insieme alla tua amica Maria Leoci, i tre quadri con le vostre foto, poi il kuphata myendo (gesto culturale di profonda riconoscenza) fatto da tre donne per ognuna delle croci e infine le parole del Cardinale di cui trascrivo quanto segue: «Fratelli, siamo qui sul  tumulo del sangue di uomini innocenti che hanno dato la loro vita per amore di questo popolo…

Questi tre missionari, uomini innocenti, uomini di amore e di pace, hanno lasciato la loro terra e la loro famiglia per vivere col popolo mozambicano hanno sparso il loro sangue e donato la loro vita per amore del nostro popolo. Questi uomini saranno la forza della nostra chiesa. Sacerdoti pieni di amore e di abnegazione sapevano di essere in pericolo, ma non hanno abbandonato il gregge che il Signore aveva affidato loro ed hanno preferito morire… Amavate questi uomini ed essi vi amavano. Ora ve li hanno uccisi…

Come vivrete qui senza i vostri frati cappuccini?... Possiamo dire: anche noi abbiamo eroi! Non certo eroi del mare, ma eroi della foresta; uomini valorosi che hanno affrontato bombardamenti; che hanno sopportato fame e sete, caldo e freddo, sole, pioggia e fastidiosi insetti; non in cerca di oro o di argento, di nuove terre o imperi, ma del sacrosanto e inalienabile dono della libertà. Sia onore ad essi! Chiediamo ai nostri martiri che intercedano per noi perché ci sia pace in Mozambico!»
In un ambiente di grande commozione e di profondo silenzio l’acqua benedetta consacrò questo luogo della testimonianza e del martirio.

«Dare la vita non significa solo essere uccisi...»

Camillo, se sei martire, insieme con fra Francesco Bortolotti e fra Oreste Saltori, per il modo in cui hai dato gloria a Dio con la tua morte, non lo so. Fra Francesco e fra Oreste non li ho conosciuti bene, ma anche loro hanno avuto una vita di eroismo missionario.

Di te, però, posso affermare che certamente sei martire (testimone!) per quello che hai fatto durante la tua vita, per il tuo umorismo, per il tuo ottimismo e per il tuo modo cristiano di vivere, specialmente negli ultimi anni, prima di essere chiamato dal Vescovo a lavorare in curia, quando la fame attanagliava tutti.

Inhassunge: i Terziari francescani

Anche per noi frati, per le suore e per i tanti amici, tu eri il buon samaritano. Quando venivi da Inhassunge a Quelimane la tua jeep carica di pesce, verdure, cocchi, sale. Facevi il giro delle case di tutti per distribuire beni da te prodotti nell’orto della missione o il pesce pescato dalla tua cooperativa che tu compravi e poi a piene mani distribuivi.

Quando venivi da Inhassunge a Quelimane…

Sei stato un pastore e un sacerdote che ha saputo dinamizzare la vita cristiana delle tante e numerose comunità cristiane di Inhassunge. Hai saputo trasmettere la gioia del Vangelo in una delle missione dove il messaggio di Cristo Signore è stato accettato con orgoglio. Inhassunge, col tuo contributo, è diventata una delle missioni più attive della diocesi di Quelimane.

L’ordinazione sacerdotale di Martinho Maulano nel 1986, un ragazzo della tua missione, dice chiaramente quanta attenzione profondevi alla vita cristiana. Hai accompagnato Martinho nel suo lungo e difficile percorso per arrivare al sacerdozio. Il partito Frelimo lo aveva preso di punta, prima obbligandolo ad entrare nell’esercito, poi impedendogli la frequenza del seminario.

Tu per lui fosti il punto di riferimento e il ‘padre’ lo accompagnava nelle dure lotte per difendere la sua vocazione.

Sempre presente nella vita di ogni comunità come operatore di comunione e dinamizzatore di una vita cristiana capace di rispondere a tutte le dimensioni sociali, politiche ed economiche.

Il tuo impegno nello sviluppo sociale non era fine a se stesso, non era mera filantropia, ma la risposta cristiana ai bisogni dell’uomo di Inhassunge.

In campo dello sviluppo economico, col tuo senso pratico, hai indicato alla gente gli ambiti di uno sviluppo “possibile” sfruttando le forze e la ricchezza della natura.

Per creare le cooperative delle saline catturasti l’acqua salata dell’oceano nei grandi invasi appositamente preparati. Le maree te la portavano per forza propria.

E per le cooperative di pesca donasti reti ed ami per pescare l’abbondante pesce dei canali di sfogo creati dalla invasione delle maree.

Questo tuo impegno hai continuato a viverlo nell’amministrazione oculata della Caritas; nella tua attenzione alle situazioni di emergenze che la guerra creava ogni giorno; nei tuoi interventi tempestivi nei campi di raccolta dei dislocati interni e dei rifugiati mozambicani nelle nazioni vicine.

Aiutare i rifugiati in Malawi? Non c’è problema!

Lo facesti in modo efficiente e generoso nel novembre del 1988. Io tornavo dall’Italia. Arrivato a Maputo, fui chiamato dai padri Comboniani che mi informarono della situazione drammatica dei rifugiati mozambicani in Malawi; forse più della metà provenivano dai territori delle nostre missioni. Le stime dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu parlavano di 720.000 persone accomodate in molti campi in condizioni di estrema indigenza: fame, nudità, mancanza di acqua potabile e precarietà nell’assistenza sanitaria.

Con i Padri Comboniani e la Caritas nazionale facemmo un progetto di aiuti. Si voleva organizzare una spedizione da far viaggiare insieme ad una colonna militare fino al Malawi.

Ti telefonai per informarti di tutto e per sapere la disponibilità esistente in materiali della Caritas di Quelimane e delle nostre riserve come frati cappuccini. Tu dimostrasti subito il tuo amore appassionato e incondizionato per gli ultimi. Credo che fu proprio in questa occasione che ti avventurasti a guidare il trattore per accelerare le operazioni.

La tua risposta fu semplice ed efficace: «Non c’è problema! Qual è il problema? Finché voi arrivate in Malawi via Tete, da Quelimane farò pervenire a Milange dei camion carichi di ogni ben di Dio, specialmente di sale che in Malawi scarseggia!». 

E fu così che insieme al comboniano P. Giacomo Pelagi mi avventurai in una colonna di camion, non solo della Caritas, scortata da militari, con tanto di batticuore, e arrivai in Malawi. E furono una vera provvidenza i camion che tu mandasti  da Quelimane! Specialmente le tonnellate di sale delle tue cooperative, ebbero un grande successo in ogni centro di raccolta di rifugiati.

Ma anche i malawiani poterono accedere a questi aiuti! Durante 10 giorni visitammo tutti i campi dei rifugiati mozambicani per distribuire, insieme ai missionari del posto, gli aiuti che avevamo portato.                      
Ma, andando ancora indietro nel tempo, ricordo un altro tuo gesto di carità che ti costò molto caro. Eri davvero contrariato!

Con fra Prosperino Gallipoli

Era il dicembre del 1979. Noi cappuccini pugliesi del Mozambico eravamo da qualche giorno tutti a Beira. Il 9 doveva essere ordinato sacerdote il nostro fra Francisco Chimoio, oggi arcivescovo di Maputo. Inaspettatamente ci arrivò un telegramma di P. Prosperino Gallipoli che ci annunziava il suo ritorno in Mozambico per il 7 dicembre, per ordine del presidente Samora Moises Machel, dopo la sua ingiusta espulsione avvenuta il 22 gennaio dello stesso anno. Qualcuno di noi doveva privarsi della gioia di partecipare  all’ordinazione sacerdotale di  fra Francisco per andare  a  Maputo  a  ricevere  fra
Prosperino.

Il gruppo scelse te perché più capace di salvarti in tutte le difficoltà, perché avevi sempre una soluzione a portata di… “testa” ogni volta che la vita diventava complicata! Il problema era che, all’epoca, nessuno di noi conosceva Maputo, non avevamo ancora una casa nostra e non conoscevamo le case dei missionari per chiedere ospitalità. Ti opponesti con un forte diniego perché a Maputo non c’eri mai stato. Ma alla fine partisti.

1984: i missionari in capitolo

Te la cavasti nel peggiore dei modi. Essendoti perduto a Maputo, quando arrivasti all’aeroporto, non trovasti fra Prosperino il quale era già stato prelevato da qualche suo amico. Andasti alla sua ricerca per tutta la città (come Maria e Giuseppe alla ricerca di Gesù smarrito a Gerusalemme!), finché noi stessi non ti comunicammo da Beira, che fra Prosperino si era rifugiato in una locanda della avenida Julius Nherere.
Al ritorno fosti accolto da una corale risata da parte nostra e tu con la tua solita ironia: «Bella figura! Me la pagherete!»

Camillo! È passato un anno. Finalmente ho finito di scrivere questa lunga conversazione-carrellata con te. Son passati 25 anni dalla tua morte. Non ho mai scritto di te. Qualcosa me lo ha sempre impedito. E quanta fatica per scrivere tutto questo! Anche se è passato un quarto di secolo dai fatti raccontati, sono eventi che ancora mi bruciano in cuore.

Ho voluto delineare in termini cristiani la tua storia, storia di un uomo che è vissuto mettendo in pratica il Vangelo.

Voglio dedicare a te le parole che il servo di Dio, l’arcivescovo salvadoregno, Oscar Arnulfo Romero disse durante l’omelia per il funerale di un prete assassinato dagli squadroni della morte: «Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore… Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco! » 
Dare la vita in questo modo, secondo me, è martirio!
Ma a te il Signore ha dato anche “l’onore di essere ucciso” per fedeltà alla tua vocazione, alla tua missione, alla tua gente, a Cristo Signore!

    Taranto 27.02.15                                                                               Fra Francesco Monticchio